Sveva





Aveva abbassato lo sguardo. 




I capelli erano scivolati lenti sulle sue spalle. 

Le avevano sfiorato il braccio e si erano persi per un istante. 


Avevano dondolato e si erano fermati con lei, ad osservare quel vuoto lungo e silenzioso. 


Sveva guardava di fronte a sé. 


Anche il mare era fermo 


Così era rimasta immersa in quel silenzio

buio e sereno

prima di tornare a casa.


La strada non era molta e mentre pedalava sentiva la notte che le scorreva attorno. Il rumore dei pneumatici sull’asfalto. Le tante paure che si mescolavano in quel breve viaggio 

e le si rovesciavano addosso. 


La paura che non le bastasse niente o quella di non esser mai abbastanza per quello che avrebbe voluto. 


Sua madre l’aspettava sveglia tutte le sere. Dormiva sul divano, sotto una coperta con in mano il cellulare. Quando arrivava a casa Sveva si muoveva piano, arrivava al divano e fermava la puntata della serie che stava guardando. Le toglieva le cuffie dalle orecchie e la svegliava per dirle che poteva andare a dormire. 


Alla sua età forse era strano vivere con i suoi genitori. O forse non lo era. Molte sue amiche erano ancora a casa. Molte di loro avevano abbandonato l’idea che ci fosse una vita fuori dalle loro camere.


Camminava per la casa buia ed era andata in bagno. Non poteva fare una doccia, era troppo tardi. Le girava la testa. Si era ricordata di dover metter il cellulare sotto carica. Già, ma dov’era il caricatore? In camera. In camera non c’era. 


Era tornata in soggiorno. Si era guardata in giro. Aveva cercato fra dei libri appoggiati sul tavolino davanti al divano. 


Niente. 



Sua madre però l’aveva sentita da lontano. 


Se cerchi qualcosa da mangiare è in cucina. Sul tavolo ti ho preparato qualcosa. Mangia prima di dormire. Guarda che con tutta questa bicicletta che ti fai ogni giorno mi stai smagrendo.“ Silenzio. “Amore, poi vai a dormire…




Nel silenzio della cucina vuota, aveva rivisto la sera passata. Il rumore del chiavistello mentre aveva legato la bicicletta dietro il muretto. Samira che le era passata accanto per entrare.

Non erano mai diventate amiche. Avevano bevuto qualcosa dopo il servizio, ma senza dirsi molto. Sapeva che aveva un figlio 

o forse una figlia.


Insieme lavoravano bene. Nessuna delle due aveva alcuna intenzione di far la cameriera per sempre. Nei diversi ristoranti della zona in cui avevano lavorato la paga era sempre bassa e alle volte completamente in nero. Spesso erano pagate a servizio o assunte con contratti stagionali. Lavori di breve durata, pagate il meno possibile. 


Nel ristorante precedente, quando Sveva aveva chiesto cosa avrebbe dovuto fare se si fosse ammalata, il proprietario le aveva risposto che lavorava part time. 


Aveva l’altra metà della giornata per stare a letto e vomitare. 


Le ragazze che lavoravano in sala dovevano stare attente ai clienti, quelle che lavoravano in cucina ai colleghi. Una sua amica era l’unica cuoca nel suo ristorante e passava la sera a sentire battute oscene, mentre lavorava. 


Ormai erano rumore di fondo, come le pentole che sbattevano sui fornelli o gli sportelli dei forni, ma erano continue, opprimenti. Erano un veleno lento che nel tempo le spegneva goccia dopo goccia. 


Nessuna cattiveria. 

Niente di personale. 

Sono solo battute.

Sai come siamo fatti.


Un elenco di frasi e sguardi appoggiati lungo il bancone,

 come le verdure tagliate della linea per il servizio della sera. 




Poi si era alzata. Aveva abbandonato tutto dov’era ed era andata in camera. Le due e trentasette. Aveva risposto a qualche messaggio. In quante si sarebbero incazzate per quei messaggi? In quante erano ancora sveglie? 


Forse era la sola ad essersi dimenticata che ogni giorno iniziava con un’alba. 














V  RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR


Silenzio. 



V  RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR


Silenzio.






Sveva aveva aperto gli occhi. Non si era mossa subito. Come quasi tutti i giorni, si era svegliata con Zelda sdraiata sulla sua testa e dei dolori alla schiena.


La gatta la fissava con un solo occhio aperto. Probabilmente si stava chiedendo se potesse dormire o dovesse aspettare che Sveva decidesse cosa fare. Essere svegliata più volte era una cosa che la infastidiva molto. Ogni volta doveva stirarsi, girarsi e trovare una nuova posizione.


Sveva aveva allungato la mano fuori dal letto. A terra aveva il cellulare sotto carica. Quando non si ricordava di togliere la vibrazione e arrivava un messaggio, vibrava anche la piastrella vicino al letto. Aveva sbloccato lo schermo nella stanza semibuia. 


Non sentiva alcun rumore fuori dalla porta. 


Telegram. Chi è a quest’ora… Stavo dormendo…




Fede “Sveglia?” 8:43


Cazzo. Era Fede. 


Sveva “Stavo dormendo...” 8:52


Sveva “Ieri ho finito il servizio tardi… ” 9:10

Sveva “Le ho viste le foto che hai pubblicato della festa su IG… belle… ma con chi eri?” 9:10

Sveva “(Figo il tipo…) Chi era? Il fratello di Matti?” 9:10


Fede “Cazzo… ma eri ancora a letto? Ma i tuoi non ti fanno il culo che stai tutto sto tempo a dormire?” 9:10


Sveva “Ma farti i fatti tuoi? 🙂 9:10


Fede "Sì il tipo è figo figo… però non c’entra un cazzo perché ti ho scritto… poi ti dico…” 9:10


Sveva “Ok…. quindi? 😂 9:10


Sveva aveva aspettato per un po’ di tempo, seduta sul letto, se arrivasse una risposta. Poi si era alzata. Fede era una delle sue migliori amiche. Anni prima era una delle tante che avevan deciso di andarsene. Era riuscita a trovarsi un lavoro a Milano. 


Viveva con altre ragazze in una casa piuttosto vecchia lontano dal centro. Non era mai andata a trovarla e Fede si lamentava tutte le volte con lei. Si vedevano quando scendeva per Natale e d’estate. 




Sveva “Daiiiiiiiiiiiiii…. Ripigliatiiiiiiiii…” 12:34


Fede “Non rompere il cazzo che ti ho trovato una soluzione… Ti mando un vocale più tardi… cazzo che non è che dormono tutti come te tutto il giorno… 😂 12:35




Fede era insopportabile. Già prima di partire per Milano. Ora faceva la designer in uno studio ed era diventata veramente insopportabile. 


Nel pomeriggio era arrivato il vocale di Fede. 


Oooohhhh… Scusa per prima, ma stavo con un’amica con cui usciamo la sera che era troppo presa male…” Nei vocali Fede parlava senza seguire un filo logico. Minuti ad ascoltare lamentele e racconti di persone che Sveva non conosceva. “Comunque… Sto pensando di cambiare casa, per andare più vicino al nuovo ufficio in cui sono ora… E rimarrebbe libera la stanza… Il prezzo è veramente basso e le ragazze sono veramente stra serene… Più o meno…”. 


Mi dicevi che volevi venire a Milano e cercarti qualcosa per svoltare la situazione che a casa ormai ti stai per sparare…” Non erano esattamente le parole che aveva usato Sveva, ma Fede era molto brava ad interpretare a modo suo… “Se ti interessa… Fammi sapere che almeno dico alle ragazze di sentirti… Solo devi sbrigarti… Altrimenti hanno già un’altra loro amica che verrebbe a prender la stanza…”.





Qualche sera dopo si erano viste su Meet. Fede era seduta sul suo letto.


Ciao Fe… Come stai messa?”. 

Male Sve… Giornata del cazzo… Però non mandarmi in para parlando di oggi… dai che dopo devo uscire…”. Fede si era guardata intorno, in stanza con lei ci dovevano essere altre due o tre ragazze. 

Fe… Io la stanza me la prendo anche, ma devo svoltare come pagarmela… Negli ultimi mesi sono sempre su Linkedin a cercar fra gli annunci, ma niente…”. La connessione di casa sua era pessima. Le immagini continuavano a scattare. Fede forse non aveva sentito niente.

Ma tanto la conosceva. Sapeva di cosa si lamentava. “Sve lo so che la tua laurea potevi anche evitartela… almeno ti risparmiavi i pianti perché avevi smollato Andre…”. Ride la stronza. 

Appunto. Non l’aveva neanche sentita, ma sapeva perfettamente dove colpire.

Sveva era laureata all'Accademia di Belle Arti di Macerata. Arti applicate. Illustrazione e Fumetto. 

Sve l’arte poi l’hai applicata?". Sveva con Fede scherzava sempre sulle tante scelte del cazzo che aveva fatto. Faceva soltanto finta di prendersela… “Ma vaffanculo…” Avevano riso, perse fra il rumore delle ragazze nella stanza di Fede. 


No… ascolta stronza… Te l’ho detto… pieno di gente di merda… poi lo sai che avevo preferito tornare a casa… ”. Sveva aveva tolto lo sguardo dallo schermo. Smesso di sorridere per un istante. Si era persa nei suoi pensieri. 

Fede se ne era accorta e le aveva detto: “Per il lavoro ho diverse amiche qui che lavorano in studi. Potrei chiedere. Un lavoro te lo trovo. Chiedo per dei part time. Lavorare otto ore mi muori… non ce la fai… ”.  

Grazie Fe… Sicuro part time perché se salgo mi iscrivo allo IED, come ti dicevo… questa volta vorrei provare con Interaction design… tre anni e sul curriculum dovrebbe stare meglio di Illustrazione e fumetto…”. Fede non perdeva occasione per un: “Cazzo ma non l’hai ancora tolto dal curriculum?”. Avevano riso.

Comunque Sve… che poi devo andare… mandami un curriculum senza la laurea che non fa una bella scena e dimmi quando arrivi che ti preparo la situazione…”. Sveva era rimasta ferma un momento. Lo stava facendo davvero. “Grazie Fe”. 

Sve se non t’aiuto io, sei fottuta lo sai…”. Avevano riso ancora, mentre la chiamata sfumava.









Tre anni dopo Sveva pensava ancora a quella chiamata. 



Fede aveva ragione, senza di lei, il suo aiuto, non sarebbe partita. 

Erano stati anni difficili. Milano l’aveva sfidata ogni giorno. Ma aveva imparato a 



Si era fermata e aveva sorriso.



No, in realtà non avrebbe saputo dire cosa avesse imparato. Sarebbe sembrato così qualcosa dirlo, ma non sarebbe stata lei. 


Forse poteva dire di aver scavato ancora un po’ e di avere affrontato un mondo che aveva sempre visto da lontano. E ora quel mondo era un po’ anche lei. Forse.




E mentre ci pensava, era lì, chiusa in bagno, 

mentre qualcuno da fuori urlava.








Stronza… esci da quel cazzo di un bagno!”. 

Un colpo alla porta. “... Merde…”.



Un altro. 




Un altro ancora.



“Fille de pute! ...”. La porta del bagno tremava. “... Je t'avais déjà dit de ne pas rester fermée tout ce temps!”.


Sveva si era limitata ad alzare la testa per un attimo. Erano quasi tre anni che la sopportava. Appena arrivata aveva paura quando sentiva Anouk gridare da fuori. Temeva che la porta le cadesse addosso, mentre era seduta sul gabinetto. 


Si immaginava incastrata con i pantaloni abbassati, mentre grossi uomini in divisa la liberavano. Pensava a quanto sarebbe stato imbarazzante rimanere bloccata così, sotto la porta sdraiata su di lei. 



Dicevano tutti che Anouk fosse bella quanto stronza. 


Sicuramente sulla seconda parte avevano ragione. Pensava Sveva.





Con le sopracciglia inarcate e la frangetta che le sfiorava gli occhi, era rimasta ferma e ascoltava il silenzio. Cercava di capire se Anouk avesse deciso che l’assedio al bagno fosse finito o se stesse cercando qualcosa per far crollare la porta.


Era la stessa cosa che temeva quando entrava in stanza e le ribaltava il letto mentre cercava l’accendino. 


Aveva provato a dirle che non fumava e che del suo accendino del cazzo non se ne faceva nulla. Ma Anouk le aveva risposto: “Le finte brave ragazze come te sono delle stronze… Almeno fossi sincera, mi diresti quello che pensi di me… Cazzo lo sanno tutte in questa casa che te la fai sotto quando mi vedi passare…”.


Aveva condito la lenta frase seguente con uno sguardo d’odio profondo: “Dis-moi ce que tu penses, merde…”.


Ogni tanto Sveva pensava anche di cambiare casa, ma poi le passava. Anouk andava a periodi. Spesso bastava ordinare un Kibbeh nayeh al ragazzo libanese sotto casa per tornare grandi amiche per due o tre giorni. 



E a Sveva 

e alla porta del bagno 

due o tre giorni bastavano 

per respirare. 





In quegli anni nella sua mente si erano accatastate parole confuse.


Che cazzo ne sapeva lei di cosa fosse un Kibbeh nayeh?

Eppure

Ora aveva anche imparato la pronuncia esatta. Il ragazzo al bancone le diceva: "Parfait!".

E quel Parfait nella sua mente prendeva posto di fianco a Kibbeh nayeh. Senza una vera differenza. Forse quelle due parole, quei due ricordi nella sua mente si parlavano in francese, senza che lei ne sapesse nulla.




Quelle due parole così lontane, sarebbero tornate a casa con lei. 


Avrebbero dormito nel suo letto, contro la sua gatta che per quasi tre anni aveva continuato a dormire sul suo cuscino. Zelda sarebbe stata contenta del suo ritorno? Non aveva mai capito se stesse con lei a dormire perché le fosse affezionata o perché le volesse dire che quel cuscino era suo.


Tornare a casa. Tre anni erano passati velocemente. 



Ora aveva due lauree da nascondere quando si sarebbe candidata per un lavoro. 



Rideva. Rideva perché si stava trasformando lentamente in una delle tante professioniste, che su Linkedin si lamentavano di essere troppo preparate per le posizioni per cui si candidavano. 


Sveva non aveva neanche trent’anni e già si preparava a fare finta di essere abbastanza impreparata da meritarsi un lavoro.


Nel suo telefono rimaneva una lunga fila di contatti persi fra Insta, Linkedin, Tik Tok e altro. Chat di gruppi di amiche. Chat di gruppi di amiche di amiche. Chat di cene che sarebbero dovute servire solo per quella cena. Chat in cui era stata aggiunta per sbaglio. Chat in cui aveva scritto cose che non avrebbe dovuto. 


La chat delle mamme della scuola materna di una collega dello studio in cui aveva lavorato. 

Cosa cazzo ci faceva in quella chat?







E poi c’era Vera. 


Lei, i suoi lunghi capelli rossi e l’odore notturno di ginseng erano il profumo di quei tre anni. Era 


era ovunque, in ogni momento che ricordasse. Non avevano mai pensato di prendere una stanza nella stessa casa. Si erano viste quando potevano. Avevano pranzato e cenato insieme tante volte. Riso di quel mondo così distante in cui vivevano.





Si erano amate a modo loro. 

Si erano amate come non avevano imparato a farlo. 




Sveva aveva quasi subito trovato un lavoro in un’agenzia di design. Niente di definitivo, ma abbastanza per tirare avanti.


Vera invece continuava a passare da un bar all’altro, da ristoranti in cui lavorava in nero a contratti di poche settimane. Non era mai riuscita a essere davvero indipendente. La sua famiglia l’aveva aiutata finché aveva potuto. Poi, all’improvviso, quell’aiuto era sparito.


Quando non era più riuscita a pagare l’affitto, aveva iniziato a sparire anche lei.


A Sveva sarebbe piaciuto poterla aiutare. L’aveva pensato più volte: ospitarla, farle spazio. Ma non era possibile. Le altre ragazze in casa non erano d’accordo. Una aveva detto che non era il momento. Un’altra aveva fatto finta di non capire.




E allora si erano salutate, avevano pianto insieme, si erano dette che si sarebbero riviste. Erano state attente a dirsi tutto quello che si deve dire quando ci si saluta. Quando non si sa, o forse si sa, che non ci si rivedrà. 






E ora Sveva pensava a lei mentre preparava le borse. 

Mentre decideva cosa portare a casa e cosa lasciare a Milano. 


Il giorno che l’aveva incontrata non era stato per caso. Era agitata. No, era spaventata. Spaventata a morte. Era sola sull’autobus che la portava a scuola, allo IED


Stava per iniziare finalmente il corso di Interaction Design. Era ironico pensare che in quel momento non avrebbe voluto interagire con nessuno. Si sentiva impreparata e tremendamente fuori posto su quell’autobus. 


Durante il viaggio da casa a scuola, per lei Vera era stata soltanto una testolina lontana dai lunghi capelli rossi, 

bellissimi, 





ma distanti.


La vedeva, mentre oscillava in mezzo a tutta quella gente. Sembrava agitata, con la testa appoggiata al finestrino, con la voglia di uscire e andarsene. 


La capiva perfettamente.


Anche Sveva avrebbe voluto uscire. Tornare a casa e dire ad Anouk che lei e il suo gabinetto e i suoi accendini potevano andare tranquillamente a fare in culo. 


Tornarsene a casa dai suoi e spegnere tutto. Fare finta che non fosse mai partita. Fare finta che non le importasse più di nulla e che la sola che contasse fosse tirare avanti come gli altri. Come tutti quelli che le scrivevano su Telegram o Insta che andava bene così. Anche loro se ne sarebbero andati se avessero potuto. Anche loro avrebbero voluto avere le palle per fare quello che aveva fatto lei. Le palle


Cazzo, ma com’era possibile che anche le sue amiche le scrivessero le palle?


E invece no. Lei era partita e ora era su quel autobus sporco di odori, profumi di marca, giacche di pelle, spray per i capelli, lavanderia. Odori di persone che come lei si preparavano ad affrontare il mondo e ne volevano un pezzo tutto loro. Un fottuto pezzettino di mondo su cui piantare la propria bandiera. Morire e dire che anche se non contava un cazzo, quel metro quadro era stato loro per quel che contava.




Mi scusi, scende?”.



Sveva non aveva sentito. Aveva le cuffie nelle orecchie. Spotify Premium. Arlo Parks. Il mondo là fuori si fottesse per qualche minuto.


L’uomo di fronte a lei aveva fatto un cenno con la mano. Sembrava infastidito. Sveva si era chiesta cosa volesse. Si era tolta una cuffia.



Le ho chiesto se scende…”. L’uomo la guardava e indicava verso la porta alle sue spalle.



No, non devo scendere...”. Sveva si era spostata, aveva inarcato le sopracciglia e rimesso a posto la cuffia nell’orecchio. Arlo Parks era tornata a vomitarle addosso le sue paure.


Quando l’autobus girava a destra l’uomo di fianco a lei le finiva addosso. Lei si teneva con una mano alla maniglia appesa, ma scivolava contro la signora seduta di fronte a lei. La prima volta non aveva tenuto la borsa con le mani ed era finita contro il suo braccio. 


La signora adesso fissava la sua borsa come se fosse un grosso animale pronto a sbranarla. 


Aveva lo sguardo teso e sembrava che cercasse di capire da dove sarebbe arrivato il prossimo colpo. A Sveva sembrava avesse gli stessi occhi della sua gatta quando andava a caccia di lucertole in giardino. 


Immobile, 

orecchie tese all’indietro, 

nascosta tra l’erba bassa 

con lo sguardo di chi recita la parte del felino. 




Le era anche venuto in mente di non tenere la borsa e vedere se la signora sarebbe stata una cacciatrice migliore del suo gatto. Ma non avrebbe avuto la forza di litigare quella mattina. Così aveva trattenuto il suo istinto caotico e aveva premuto bene contro di sé la borsa. 


Poi l’autobus aveva svoltato a destra, aveva rallentato e si era trovata di fronte l’ingresso della scuola. Le porte a vetro si erano aperte. Qualcuno era sceso e ora toccava a lei. Nel rumore del motore e del traffico, nelle parole delle persone che passavano veloci di fronte alle porte aperte, doveva trovare la forza di scendere. 


Quella era proprio la sua fermata. Doveva solo fare un passo e andare incontro a una nuova pagina di quella vita, che ora l’aveva portata lontano da casa. 




Un passo. 

Soltanto uno.




Quando aveva toccato terra e sentito che le porte si richiudevano dietro di lei, aveva pensato che ora non poteva più scappare o dire che 

non era stata in grado di arrivare in tempo


La sua vita ora era davanti a lei. O forse non proprio. La sua vita si trovava alla sua sinistra. 


Quando era scesa, non aveva notato che anche la ragazza con quei meravigliosi lunghi capelli rossi, aveva fatto quel suo stesso passo, con la sua stessa paura.


Anche quella ragazza si era trovata come lei davanti all’ingresso della scuola a pensare quello che lei pensava. Magari loro due insieme non avrebbero superato la paura che sentivano, ma guardandosi 

prima di sfuggita

e poi negli occhi 

avevano capito di non essere più sole. 




Ora



Ora non era lì con lei. Non sarebbe stata davanti ai binari a salutarla mentre partiva. Non sarebbe scesa con lei dal treno arrivata al paese, 

magari questa volta dalla stessa porta senza paura. 


Vera sarebbe rimasta un ricordo sospeso fra i ricordi di quegli anni.


Un profumo 

o forse un colore 

che non si dimentica. 







E poi




E Sveva poi si fa scale. 

E poi strada. 


E poi metropolitana, 

linea rossa e verde. 


E poi scale mobili. 

E poi tapis roulant. Mentre Vera e tutto il resto rimangono intorno a lei.


Passi e il binario nove

Annuncio del treno


Tre brevi scalini

Odore di trabocco

E rumore di assi di legno consumati dal vento

Dove il mare non riesce ad arrivare





Sveva rimane ferma

Il tempo su quel treno è silenzio sospeso. 




La prossima stazione. 

Le gallerie. 

I passi ovattati lungo il corridoio. 

Il rumore delle pagine voltate di un libro. 


Il tap tap e ancora il tap tap. Unghie lunghe e finte sullo schermo.


Intorno a lei sguardi di uomini e donne oltre gli alberi e le case, che scorrono rapidi di fronte a loro. Linea dell’alta tensione che si alza e si abbassa veloce. 




I lunghi irrigatori immobili 

in mezzo ai campi di grano. Aspettavano il caldo dell’estate per mostrarsi al mondo che passa su quei treni. Anche lei aveva aspettato ed era andata. Aveva avuto la sua estate. Ne avrebbe avute altre. Ma per il momento è solo autunno. 


Un ragazzo e una ragazza giocano a tavla sfidando la fisica del treno. Ogni tanto ridono. Sveva li guarda e vede sua sorella, lontana da lei. Anche lei a godersi la sua estate in una qualche Milano in giro per l’Europa.




Abbassa lo sguardo, sorride e ripensa alle serate con il suo vecchio ragazzo che aveva lasciato. Le serate con lui e i loro amici a giocare a vecchi giochi in scatola.


Lui forse vive ancora con i suoi in una di quelle case che viste da lontano, viste tutte insieme, sembrano qualcosa. Forse non a lei che vive qualche casa oltre le mura. Di quelle che giù dalla collina non si vedono e nelle fotografie non ci sono. A Milano diceva: “Vedi quella casa piccola, un po’ arancione sul fondo… ecco… due case più indietro ci sono i miei…”.



Ora sta andando in quella casa. Più precisamente nella sua camera, in quella casa. Non sta tornando per sparire. Non sta tornando per arrendersi. Solo per respirare e pensare cosa fare dopo. Quale sia la prossima destinazione. 


Sfiorandosi le dita della mano con il pollice si ripete queste frasi perché vuole sentirlo. Vorrebbe che ora qualcuno glielo dicesse. 


Ma non c’è nessuno. 


E allora se lo ripete ancora e ancora. Respira queste parole e si perde nella speranza.


Non sta

tornando 

per 

rimanere. 



Sveva 

che era andata per non tornare

che doveva girare il mondo ed era partita 

perché forse non voleva restare. 




Sveva, 

che sulla sua bicicletta oliva

saliva e scendeva colline in fiore 


che d’inverno erano pietre immobili 

sedute a guardare il mare.




Sveva,

che sulla sua bicicletta oliva

guardava le reti appese al sole


che con lei non eran partite



e la stavano ad aspettare.

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Alina