Alina
E ora lo vede piangere.
Lei è in piedi e lui è disteso a terra.
Muove i pugni nell’aria, ma non trova niente da colpire. Anche il divano è troppo lontano e non c’è niente con cui sfogarsi. Quella rabbia rimane dentro di lui e allora urla e si piega su se stesso, come se cercasse di vomitare fuori il dolore. Ma non ci riesce e le sue grida si soffocano nella sua gola.
Alina prova quasi pietà per quel corpo che si contorce di fronte a lei. È la prima volta che non sente alcuna paura. Lui si muove e cerca qualcosa. Qualunque cosa che abbia un peso e gli faccia sentire il proprio. Lei non sopporta più quell’odore di birra e fumo che riempie la stanza. Vorrebbe andarsene, ma rimane immobile perché non sa cosa fare.
Lo guarda dall’alto e si ricorda quando le diceva che lei era soltanto un animale che ha bisogno di un padrone. E ora quel padrone è a terra e lei sente che qualcosa nel suo corpo si lascia andare.
Non era mai stato così pesante. Si sente libera e vuota.
L’aria intorno a lei diventa d’un tratto troppo grande da respirare.
Guarda la porta di casa. Si gira nuovamente verso di lui e capisce che non può farle più nulla. Le gira la testa e fatica a camminare dritta, ma si muove lentamente fino alla porta. Tocca la maniglia con la mano e la apre. Guarda fuori, guarda verso le scale. Non vede nessuno, non sente alcun rumore.
Fa soltanto in tempo a chiudere la porta e poi più niente.
Solo il vuoto.
Quella mattina non si era alzata. Non lo aveva fatto neanche più tardi, quando il pomeriggio era arrivato. Aveva visto il sole percorrere tutto il muro di fronte a lei, illuminando piano i mobili e le pareti oltre la tenda. Poi era diventato sottile e dopo poco era scomparso.
È inverno e le giornate sono brevi.
Avrebbe potuto restare dov’era e guardare quella luce che compare, per poi svanire nuovamente. Sarebbe rimasta nel buio nel quale aveva aperto gli occhi la mattina.
Avrebbe potuto farlo all’infinito, senza mai smettere.
Buio e luce
che si perdono
uno nell’altro
senza fine
Nessuno si era preoccupato per la sua assenza. Il suo cellulare era vicino a lei e guardava verso lo stesso soffitto, senza che nessun messaggio o chiamata arrivasse. Forse provava la stessa solitudine e lo stesso dolore che provava anche lei. La sua luce blu era l’unica che illuminasse le pareti vuote intorno a lei.
Alina ogni tanto sedeva in cucina con la stessa sensazione di apatia e guardava fuori le persone passare attraverso il vetro della finestra. I passi, le voci, le ombre in movimento. Tutti sembravano avere una direzione. Tutti sembravano liberi. Ma forse stavano solo fingendo.
Nell’idea che nessuno fosse felice trovava sempre un po’ di felicità.
Sdraiata, cercava la forza di alzarsi, ma il suo corpo restava immobile. Forse anche lui aspettava soltanto la notte. Fino a quando a nessuno sarebbe più importato.
Se mai fosse davvero importato.
Ogni tanto però anche in quel momento non era finalmente libera. Il marito la costringeva a fare quello che avrebbe evitato di fare. Lei lo faceva e non si ribellava. Sapeva che sarebbe stato peggio. Lo lasciava fare. Sperava che finisse in fretta e che non si vedesse il suo dolore. Ma lui non lo notava mai.
Era accaduto che piangesse.
Ma lui aveva continuato e lei aveva completamente perso il contatto con il suo corpo. Quando si era ritrovata in bagno, seduta a terra con le gambe contro il proprio petto e i piedi contro la lavatrice stretta su di lei, aveva pianto ancora. Nel buio non vedeva il suo corpo, ma sentiva tutto dentro. Sentiva il dolore.
La solitudine nel buio cresceva e diventava luce che la abbagliava.
Poco dopo era mattina. Aveva dormito sdraiata a terra, sopra il tappeto del bagno. Non aveva neanche trovato le forze per tornare a letto.
Il marito non l’aveva chiamata. Non si era preoccupato che fosse a terra. Non si era preoccupato che in quella posizione avrebbe potuto essere svenuta. Le era passato accanto forse, ma l’aveva lasciata dov’era.
Aprendo gli occhi lo aveva sentito lontano, forse in cucina. Lei vedeva la luce entrare dai buchi delle tapparelle e perdersi nell’azzurro del bagno. Si era messa a sedere, passando le sue dita sugli occhi. Mentre lo faceva, i capelli le erano scivolati lenti sulle spalle. Sentiva del dolore lungo la schiena.
Aveva fame, ma sarebbe dovuta andare in cucina e non voleva vedere suo marito. Sperava che se ne andasse presto e che sparisse per un po’ di tempo.
Suo marito entrava e usciva senza dirle niente. Lavorava nei cantieri con un amico e a volte non tornava per giorni interi. Alina non sapeva niente della sua vita oltre la porta e non le importava. Le diceva soltanto che andavano a lavorare lontano e questo le bastava.
Sprofondava nel silenzio con le tapparelle abbassate e la polvere che vagava nell’aria. Di suo marito in casa restava l’odore delle sigarette a ricordarle che prima o poi sarebbe tornato.
Aveva provato a sentire quell’odore mentre faceva la spesa da sola.
Il respiro le si era mozzato. Si era chiesta cosa avesse fatto di male, perché lui fosse lì a seguirla. Si era voltata, ma lui non c’era. Era sola, ma il peso della colpa non spariva. Aveva accelerato i passi, tornando a casa in fretta. Il terrore di doversi giustificare l'aveva sconvolta.
Mesi fa, dopo la spesa, Alina aveva scambiato qualche parola con una vicina, senza aver notato che suo marito era passato in macchina. La sera lui era rientrato sbattendo la porta.
“Alina, dove sei? Ti ho vista oggi…”. La fissava da lontano, con odio. “Stavi parlando con la vicina. Cosa voleva da te? Perché ti sei fermata? Perché non sei tornata a casa?”. Si era avvicinato.
“Perché non fai quello che ti dico io di fare?”. Poi l’aveva picchiata.
Non era la prima volta. Non sarebbe stata l’ultima.
Uno schiaffo. Forte. Poi un altro. Lei si era chiusa a terra, le mani sulla testa. Lui l’aveva colpita ancora. Un calcio. La paura che le esplodeva nel petto.
Lei era rimasta immobile con gli occhi spalancati, nascosti dietro le braccia. Ansimava e aveva paura di piangere. Non sapeva se potesse farlo. Era corsa in bagno, si era chiusa dentro e aveva pianto e gridato in silenzio, mentre l’acqua della doccia scorreva e copriva con il proprio rumore, quello delle sue lacrime.
Poi lui aveva bussato e bussato ancora.
“Scusa Alina… Sai che ti amo e non ti farei mai del male…”. Da fuori lo aveva sentito piangere. “Esci amore… Non volevo farlo…”. Le mani le tremavano, stringendosi sulle ginocchia. Non voleva aprire la porta, ma sapeva di doverlo fare.
Allora si era avvicinata alla porta, l’aveva toccata piano con un dito e poi aveva girato la chiave di scatto, arrendendosi a qualcosa contro cui non poteva combattere. E lui l’aveva abbracciata e avevano pianto ancora, insieme. “Scusami… Scusami davvero…”. Alina lo aveva abbracciato. Aveva paura, ma si sentiva anche sola.
E lui era la sola persona che potesse consolarla.
Questo pensiero si era posato sul suo corpo, sdraiato immobile sul letto, e la tormentava. Ripensava alle persone che vedeva fuori dalla finestra, a quante fossero e a tutto quello che non aveva mai visto. Alla vita che scorreva oltre le case sul fondo della strada.
Ripensava a quello che invece conosceva bene, fin da piccola. Le porte sbattute con rabbia. La tavola ribaltata durante la cena per una parola sbagliata. Il volto di suo padre mentre gridava fino a stare male.
Lui che le diceva: “È colpa tua! È soltanto colpa tua! Alina non girarti! Guardami e vergognati!”. A volte la malediceva e aggiungeva: “Sei un’incapace! Mi fai schifo!”.
Quando era ragazza, era anche stato ricoverato per giorni in ospedale per colpa sua. Aneurisma al cervello. Si era piegato in un angolo vicino alla porta d’ingresso e aggrappandosi alla testa era scoppiato in un grido forte, trattenuto.
Poi era svenuto.
Alina era corsa al telefono. “Pronto… Sì… Mio padre è svenuto… è a terra… Si controllo”. Le avevano chiesto se respirasse e di metterlo in una posizione sicura. Avvicinandosi, si era accorta di avere paura. Temeva che si svegliasse e le scaricasse addosso tutta quella rabbia che prima aveva tenuto dentro.
L’aveva girato piano, mentre al telefono aspettavano. Le gambe, le braccia e poi la testa. “L’ho girato… Allora vi aspettiamo… Sì… Se si sveglia gli dico di stare a terra e aspettare che arriviate… Grazie…”.
Se si fosse svegliato non avrebbe detto nulla. Si sarebbe soltanto pentita di aver chiamato l’ambulanza. Suo padre si sarebbe arrabbiato e probabilmente l’avrebbe picchiata.
Si era seduta, lontano da lui. Mentre lo guardava, aveva sperato che non aprisse gli occhi. Aveva sperato che rimanesse così, per sempre.
Ogni tanto i ricordi emergevano ancora e sentiva su di sé le mani di suo padre. Il dolore che rimaneva sulla pelle dove l’aveva colpita. Il letto nella stanza buia dove andava a rifugiarsi. Le cene in silenzio mentre la televisione raccontava del mondo lontano.
Viveva da fuori quei momenti. Non soltanto ora, mentre li ricordava, ma anche quando li aveva vissuti. Erano esperienze che l’avevano una dopo l’altra allontanata da sé. Il suo corpo era diventato un muro alto e sicuro in cui si era rifugiata. Nessun colpo la feriva più. Era soltanto quel corpo distante a vivere quel dolore per lei.
Si ricordava di quando era stata lanciata fuori di casa o della sera in cui era stata buttata fuori dalla macchina in corsa, perché aveva risposto male a suo padre.
Le era anche capitato di rimanere chiusa nella cantina buia in fondo alle scale. Era rimasta dentro per ore, fino a quando un vicino l’aveva sentita urlare.
Suo padre una sera le aveva tirato contro un mucchio di posate che erano sbattute contro il muro, vicino a lei. Si era riparata dietro le braccia e alcune le erano finite addosso, ma non si era fatta niente. Con la testa ancora nascosta tra le spalle, le aveva raccolte e le aveva riportate in cucina, mentre lui la guardava da lontano.
Ma la paura in cui viveva ora, offuscava il passato. Era stata grata a suo marito perché lui l'aveva nascosta al mondo, in un momento in cui aveva perso la speranza di poterlo affrontare. L'aveva portata dove nessuno poteva trovarla. In una casa lontano da suo padre e dalla sua famiglia. In una casa lontana da tutto.
Ricordava il giorno in cui si erano sposati e poi erano partiti insieme. Lontano dalla casa della sua famiglia si era sentita libera. Era durato poco, ma quel breve periodo le aveva fatto provare qualcosa che non aveva mai sentito. Aveva sempre vissuto con lo sguardo di suo padre che la inseguiva e l’incapacità di sua madre di proteggerla.
I primi giorni di matrimonio aveva provato la sensazione di libertà. Aveva perso il timore di avere qualcuno dietro di sé. Non era abituata, si aspettava sempre che qualcosa accadesse, dopo aver fatto qualcosa che non doveva. Era durato poco, ma era accaduto.
E se un giorno potesse sentire ancora quella sensazione?
Ogni tanto se lo chiedeva e poi scappava da quel pensiero. Scappava più veloce che poteva, perché non voleva illudersi e sapeva di non volere più dolore intorno a sé. Suo marito voleva quella vita per lei.
“È la tua vita, amore. Io vado là fuori e tu hai questa casa per te…”.
Già, ma lei cosa voleva?
Non si ricordava più se avesse mai voluto qualcosa veramente. Forse si era sempre limitata a fare quello che le veniva chiesto. Ordini che le cadevano addosso e che lei eseguiva, sperando di non sbagliare. Errori che commetteva e che lei sapeva di avere commesso, perché non era in grado di essere quello che avrebbe dovuto.
Alina pensava che ogni persona avesse un suo fondo oltre il quale non potesse più scavare. Ognuno sprofonda. Ognuno cade e si perde a suo modo. Finisce dove la terra si fa così dura, da non poter andar oltre.
Quel suo corpo, il suo peso su quel letto forse erano quel limite. Sapeva che tante volte si era chiesta come fosse stato possibile andare ancora più giù. Perdere ancora un altro pezzo della propria vita la sotto. Vedere ancora meno luce e avere sempre meno aria da respirare. Negli anni, mentre scivolava, non trovava niente a cui aggrapparsi. Franava e il mondo intorno veniva giù con lei.
Viscere oscure
in cui non c’era vita.
Allora aveva provato a sentire se oltre quel letto ci fosse qualcosa. Ancora più giù. Aveva fatto forza sulla schiena e aveva spinto sul materasso duro sotto di lei. Aveva fermato il respiro.
Voleva capire se avesse sofferto abbastanza e non potesse stare peggio di come stava. Si chiedeva se potesse perdere ancora qualcosa. Voleva essere sicura che quel letto fosse il fondo.
Le botte da piccola, le grida di suo padre, i silenzi di sua madre. Gli amici in strada che sembravano un riparo, ma erano una condanna. Ragazzi e ragazze che le assomigliavano. Gli stessi lividi sulla pelle, gli stessi traumi nella mente.
Erano rifiuti che si accumulavano ai bordi delle città, che qualcuno guardava da lontano con ribrezzo.
Guardava nella sua mente il suo volto che ormai faticava a riconoscere nello specchio. Quando vedeva i suoi occhi e la sua bocca, sperava che non le appartenessero. Erano nell’immagine di fronte a lei, ma mentre li guardava li sentiva estranei. Erano gli occhi di una donna che non conosceva, o che non avrebbe voluto conoscere, che la osservavano.
Lei si ricordava diversa. Avrebbe voluto vedersi diversa.
Lei si ricordava bella.
Ricordava i suoi lunghi capelli neri. Il piacere di vedersi riflessa nel vetro delle scale, mentre scendeva per scappare con le amiche la notte. Forse su quel vetro la sua immagine c’era ancora. Avrebbe potuto tornare e cercarsi. Allungare la mano e salutare quella ragazza piena di vita, dirle che magari se avesse aspettato, o se avesse fatto scelte diverse…
Guardava e riguardava la sua storia e cercava qualcosa. Ma non c’era niente. Solitudine e dolore che danzavano al buio.
Ogni tanto una luce si accendeva per poco.
Ma il buio ritornava ancora e la danza ricominciava,
senza che Alina potesse fare qualcosa per fermarla.
Poi aveva chiuso gli occhi ed era riuscita a scivolare oltre quei pensieri. E nel silenzio, si era addormentata. Forse un sogno. Forse le braccia di sua madre.
Quando si era svegliata, aveva visto le mani che tremavano e le era tornato alla mente un vecchio ricordo. Da piccola vedeva sua madre quando poteva. Lei non c’era quasi mai.
Spesso lavorava ed era sempre stanca e distante. Se non la vedeva per qualche giorno o la vedeva stare male, a scuola si nascondeva da qualche parte e piangeva. Da sola, per non farsi vedere. Quando poteva, chiedeva alle maestre di chiamare casa per chiederle come stesse.
Come quando l’aveva vista con le mani che tremavano di notte. “Alina non è nulla… torna a dormire… Ogni tanto mi succede di notte. È soltanto il lavoro… Sono un po’ stanca…”. Lei però si era spaventata e non aveva più dormito. Era rimasta con lei. L'aveva abbracciata e sua madre l'aveva stretta forte. Avevano pianto insieme e lei si era addormentata tra le braccia ruvide di sua madre.
Poi era arrivato il mattino e quando aveva aperto gli occhi, era sdraiata da sola a terra. Sentiva ancora l’odore di sua madre sospeso intorno a sé e sul suo corpo il tremore delle sue mani.
Non l’aveva mai veramente conosciuta e quell'abbraccio era stato uno dei pochi che si erano scambiate. Nonostante fosse immerso nel dolore di una notte scura, era per Alina un ricordo da non perdere. Per il tempo di una notte aveva protetto sua madre.
Ora erano le sue mani a tremare.
Ora era lei a vivere quel silenzio e quella distanza da tutto. Nascosta al mondo e incapace di gridare il proprio dolore. Mentre pensava a quella notte, a sua madre e a tutto quello che non aveva mai compreso di lei, piangeva in silenzio.
Avrebbe voluto tenere ancora una volta tutto dentro. Farsi più piccola e nascondersi in quella stanza. Ci provava, ma non riusciva. Si era girata e aveva abbracciato le sue gambe, dondolandosi piano.
Si era aggrappata a sé e aveva pensato che se tutto era vuoto, lei non lo era. Voleva ancora quelle gambe, voleva quel corpo. Voleva quella vita che non aveva mai veramente vissuto. E in quel desiderio aveva vacillato.
Aveva paura perché stava desiderando la vita e le faceva paura. Perché oltre quel letto, quella stanza, quella casa, c'era un mondo intero che non conosceva per davvero e che non era pronta ad affrontare.
Come si impara ad affrontare il mondo?
Sua madre non c'era riuscita. Si era spenta dietro l'uomo che aveva cresciuto i suoi figli nel terrore, mentre lei era assente. Alina però voleva esserci. Non sapeva dire dove o come, ma non voleva spegnersi piano piano in quella stanza così piccola, che non poteva contenere tutte le sue lacrime e le grida.
Un desiderio,
forse.
Forse un desiderio si era appeso da qualche parte nella sua mente. Alina non l’aveva visto. Doveva aver trovato un posto dove lei non si aspettava ed era cresciuto lentamente.
Poi il suo corpo aveva iniziato a muoversi. All'inizio l'aveva frenato come poteva. Lo teneva, ma lui non l'ascoltava e allora si era lasciata trasportare. Si era alzato dal letto ed era andato verso la porta della stanza. Si chiedeva cosa volesse fare. Ad ogni passo era sempre più vicina alla porta e si sentiva trascinare. Un passo ancora. E un altro. Il suo corpo era arrivato davanti alla porta. Dall'altra parte suo marito, le sue sigarette, la sua birra.
Come avrebbe reagito se avesse avuto il coraggio di dirgli, che quella vita non le apparteneva più. Che ora lei desiderava altro.
Non sapeva neanche se lui l’avrebbe ascoltata. Avrebbe potuto picchiarla ancora, ma il suo corpo forse non avrebbe più sentito niente. O forse avrebbe trattenuto per sé il dolore e lei sarebbe stata libera, chiusa nella sua mente.
Ma mentre la sua mano si alzava e afferrava la maniglia, si era accorta di una cosa:
Non tremava più.
E allora aveva attraversato quella porta
senza più niente addosso
Nessun io
Nessun presente
Nessuna emozione
Vuota
E forse di lei
Vista da lontano,
Rimaneva soltanto
Un piccolo e tenue sospiro di luce
Oggi al parcheggio poco distante da casa fa caldo nel gelo pungente di fine inverno. I merli sono appesi ai fili della corrente e guardano lontano la primavera arrivare lenta.
Il sole basso scioglie il ghiaccio dei finestrini della sua vecchia auto.
Alina è stanca e contenta. Negli occhi scuri la luce è intensa, ma sulla pelle quel calore la fa sentire viva.
Si avvicina alla macchina, prende la chiave dalla tasca dei pantaloni e la infila nella serratura della portiera. La gira con forza, ma niente. Non si muove. Si guarda intorno e il suo respiro si perde nervoso nell’aria fredda. Prova a fare forza, ancora. E ancora. Tiene la maniglia e gira la chiave. Ma non succede nulla. La portiera rimane chiusa.
Inizia a sentire del sudore sotto i vestiti e allora si slaccia la giacca e si toglie il cappello veloce. Oggi è il suo primo giorno di lavoro nella cooperativa che l’assistente sociale le ha trovato. Quella che ha seguito il suo progetto e l’ha aiutata anche a trovare la casa. Non vuole arrivare tardi.
Con un colpo secco, finalmente la portiera si apre.
Sale e getta la giacca sul sedile del passeggero. Si guarda nello specchietto. Dentro trova il volto di una donna che ha vissuto vite che non avrebbe voluto. Ma che ora ha un presente e persone intorno a sé che ha saputo conoscere, superando il timore di raccontarsi.
Infila la chiave e sorride, mentre fa un respiro e si concede ancora del tempo per guardarsi intorno. Vorrebbe che ogni particolare di quel momento rimanesse nella sua memoria. Forse per quella luce che non si può fermare, ma anche per quella meravigliosa sensazione di poter fallire senza avere paura.
Fallire e fallire ancora,
per riuscire finalmente a trovare qualcosa che sia soltanto
Alina.
Sulla testa, delle puntine colorate tengono fermo il rivestimento interno della macchina. Spesso pensa che siano solo un modo per evitare che tutto le crolli addosso, e si vergogna quando qualcuno le nota.
Ma quando è sola, mentre guida e sorride libera, le sembra che quelle puntine siano stelle di una costellazione che ha disegnato un passo alla volta, portandola verso un futuro nuovo.
Quello che si è presa quando è uscita da quella casa
e ha trovato la forza
di essere fragile.